39a settimana + 2 giorni di gravidanza.
Oh, oh, qui c’è il nascituro che preme per uscire a prendersi primo e secondo nome in anticipo rispetto a tutti i pronostici…
ore 16. Ma perché continuano a dirmi che non è niente e che devo solo rilassarmi e aspettare? Perché credono tutti di sapere meglio di me quel che sta succedendo a me medesima? E poi: perché quando sei incinta a termine e ti viene un gran male, nessuno ti prende sul serio e pensa che tu ti stia semplicemente facendo prendere dal panico? Mi dicono: “Aspetta, vedi se il dolore ti passa o se aumenta”. Io aspetto, ma il male continua e basta. Cerco di farlo capire agli altri, ma questa mia affermazione non sembra scuotere nemmeno la Monica (amica, ostetrica ma soprattutto pilastro fondamentale e taumaturgico di tutta la mia gravidanza). Oh, me tapina, se arrivo troppo tardi all’ospedale poi non posso nemmeno più chiedere l’epidurale! Ma perché la gente – e gli addetti ai lavori prima degli altri – pensa che tu in quanto gestante stia sempre e comunque esagerando? Ho mai finto gravidanze isteriche in vita mia? E quanti parti ho preannunciato fino ad oggi che si sono poi rivelati fasulli? Perché tutti credono che sia diventata all’improvviso una venditrice di fumo con il vizietto di gonfiare le notizie?!
ore 18: finalmente all’ospedale. Mentre io mi sento come una massacrata da una squadra di giocatori di rugby, il personale medico e paramedico mi guarda con sospetto ritenendo che io stia drammatizzando, che il dolore è comunque un fatto soggettivo e che probabilmente è solo un falso allarme. Salvo poi stupirsi quando verificano che “in effetti, sì, il bambino è proprio lì che spinge con la testa, ma chi l’avrebbe mai detto”.
E, io, che cosa gli dicevo io? Ma non riesco a replicare né – in generale – a spiccicare parola tutta presa dal dolore, dal freddo (in una torridissima giornata d’estate) e dall’impegno di respirare contando come un cronometro vivente, in attesa di quei sessanta secondi di tregua che mi avevano assicurato al corso di preparazione al parto e che in realtà ormai sono ridotti sì e no a cinque o sei secondi, bruciati da rinnovate e sempre più vigorose fitte di dolore. Per consolarmi S. dice: “Pensa che fra poco vedrai il bambino, lo vedremo!”. Oddio no!, penso io senza riuscire a muovere i muscoli della bocca e tanto meno a trasformare i pensieri in parole comprensibili. Mi dico: cerca di stare calma. Sì, ma come farò a farlo uscire, questo bambino? Aiuto, vorrei andare a casa! Quanto tempo dovrò stare male? E peggiorerà ancora? Non ce la faccio più, vorrei sparire, morire, dormire, chiamatemi dopo, non ho nessuna fretta di vederlo, questo bambino. Guardatelo pure voi, se credete. Io intanto preferisco fare un pisolino. Magari, dopo, me lo fate vedere anche a me, eh?
ore 20. Chissà che emozione, mi dicono. Macché emozione, solo fifa. E poi che spossatezza infinita, proprio quando dovrei essere energica e risoluta come un’ipotetica leonessa. Che sia colpa dell’analgesia epidurale? O che dipenda tutto dalla mia indole, evidentemente ben poco coraggiosa? Piccolino mio, forza, che qui mi par di capire che il coraggio mancante te lo sei preso tutto tu, vista la foga che ti è presa di uscire anzitempo!
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